I copricapi intrecciati resero Signa (Fi) la capitale di uno dei primi distretti manifatturieri d’alta gamma fin dal Settecento. Oggi le aziende superstiti si sono riunite in un Consorzio che ne tutela storia e prodotti. Elevando i loro cappelli a oggetti di lusso.

Hanno un che di metafisico le “rotoballe” di paglia che interrompono ritmicamente le uniformi distese dei campi di grano in queste settimane. E ricordano anche che il grano è la pianta simbolo dell’economia circolare, perché una volta estratti i chicchi, anche per gli steli c’è un futuro. Che li porta ben oltre le stalle, fino ai guardaroba più sofisticati, persino colti.

È il 1801 quando l’accademico dei Georgofili Marco Lastri scrive “Il cappello di paglia”, ode in tre canti a un accessorio simbolo delle prime manifatture di moda toscane, quelle che oggi sono la culla del lusso mondiale. “Signa industre, onor del Tosco regno” era la capitale di quella produzione apprezzata fin dal Cinquecento, ma che era stata portata a livello di distretto dal bolognese Domenico Michelacci: era stato lui a identificare nel grano marzuolo il migliore per fare quei cappelli e a promuovere la sua coltivazione in quelle campagne.

Apprezzatissimi per la finezza dei loro intrecci, frutto del lavoro dei primi artigiani d’eccellenza della zona, per tutto l’Ottocento i cappelli navigavano lungo l’Arno e suoi canali per raggiungere il porto di Livorno, dove si imbarcavano per tutto il mondo. Gli inglesi li adoravano in modo particolare, tanto da battezzare quei modelli “Laghorn”, versione anglo-latina del nome della città. In Francia la pièce teatrale “Un chapeau de paille d’Italie” del 1851 fu quello che oggi definiremmo un blockbuster, con repliche in tutta Europa. E quattro anni dopo l’imperatore Napoleone III in persona premiò con la medaglia d’onore i produttori di “cappelli di paglia di Firenze” all’Expo universale di Parigi.

Il successo alimentò l’inevitabile concorrenza, a costi più bassi e di più bassa qualità (soprattutto dalla Cina), proprio come oggi. I produttori toscani cercarono allora di ridurre i costi e lo sciopero delle operaie che ne conseguì nel 1896 fu uno dei primi (e il primo guidato solo da donne) dell’Italia unita. Ma fu soprattutto l’evoluzione del modo di vestire del secondo Dopoguerra, quando il cappello era considerato ormai più scomodo che elegante, a far iniziare il declino di quelle piccole, eccellenti industrie.

Le superstiti nel 1986 si sono unite nel Consorzio Il Cappello di Firenze con sede proprio a Signa: si tratta di una ventina di aziende, alcune anche alla quarta, quinta generazione, dove si continua orgogliosamente a fare i cappelli di paglia di Firenze alla maniera degli avi. Sono cappelli “di lusso”, con paglia locale intrecciata a mano, prodotti non solo per Harrods o Neiman Marcus (come quelli di Marzi, azienda nata nel 1926), ma anche per Hollywood: è un cappello di Memar a segnare la trasformazione di Julia Roberts in sofisticata signora in “Pretty Woman”. Grevi, invece, nata nel 1875 e gestita dai discendenti del fondatore Attilio, ha firmato corpicapi per altre produzioni come “Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli e “Valmont”.